Mascherina, minigonna e passa la paura… chiamalo pure retrogrado e lento alla modernità
Nell’estate del 2022, un caldo infernale, quando ancora le mascherine
erano più o meno obbligatorie, mi trovavo di Domenica in una chiesa,
quando alla fine della solenne Celebrazione Eucaristica in Vetus Ordo, la
gran parte dei fedeli fanno per uscire. Quello è il momento in cui
arrivano i turisti.
Avevo terminato le mie preghiere di ringraziamento e stavo per
uscire, quando genuflessa ai piedi della porta d’ingresso principale, per
effettuare l’ultimo saluto a Gesù con il Segno della Croce, quasi calpestata
da quattro bei baldi giovani sulla ventina, due ragazze e due ragazzi
entrati allegramente, noto due gambe nude che non finivano più, man mano che
rialzavo lo sguardo e le ginocchia da terra.
Posta in piedi,
mentre i ragazzi schiamazzavano, la giovinetta dalle gambe lunghe e poca
stoffa, fa per dirmi qualcosa. Prima che proferisca parola e catturatale
l’attenzione visiva, dopo averle dato un’occhiata palese dalla testa ai
piedi, su e giù per un paio di volte, perché capisse dal gesto quello che
per carità avrei omesso nelle parole, verbalmente incalzo, precedendola:
«Scusi signorina, lei sa che questa è una chiesa, vero? Bene. Vorrei
ricordarle che in chiesa si viene per adorare il Corpo di Cristo –
indicandole col dito il Tabernacolo. Il Corpo di Cristo, signorina, si viene
ad adorare qui. Non il suo! Fuori c’è un cesto contenente dei veli. Esca
cortesemente, si copra e ritorni qui, come si deve. Grazie”.
Filtrata
dal tessuto di una mascherina che non esiterei a definire ascellare vista
l’altezza con cui si dipanava su quel viso di cui mai conoscerò i tratti,
infuriata giunge la risposta: «Dice a me? E con quale coraggio?! Lei che non
ha nemmeno la mascherina!!! Si vergogni!», e tutta arrabbiata se ne va – con
la balda ghenga – da dove era venuta.
Rimasta sola, inebriata dal
profumo di incenso che copioso volteggiava ancora nel volume dell’intero
edificio, fino alla cupola, mi inginocchio di nuovo. Porto gli occhi al
Tabernacolo. Chiedo perdono per me e per tutti. Rifaccio il Segno della
Croce. Mi alzo, tolgo il velo muliebre e vado a pranzo, mentre camminando mi
domando cosa abbiano di così attraente questi solfurei tempi moderni da
preferire l’odore di zolfo a quello dell’incenso. Tempi che sballano le
categorie mentali per intero, senza porre argine al delirio, che nel
rovesciamento categorico consueto chiamano diritto ogni delitto e
retrograda, chiunque custodisca l’equilibrio dell’equità.
Siamo
stati giovani tutti, ma a noi è stato dato di esserlo quando si aveva ancora
un’idea dell’opportuno e dell’inopportuno. Tassello sottratto dalle
coscienze col crollo della morale, contro il quale San Pio da Pietrelcina
interveniva spesso con la consueta terapia d’urto. In casi simili infatti
con parole tipo: «Vatti a vestire, scostumata! Oppure: ti taglierei le
braccia. Le carni nude bruceranno», allontanava dal confessionale le donne
che non portavano la gonna lunga almeno fino ai polpacci, mandandole via
senza assoluzione. Diceva che ciascuno deve vestire secondo le proprie
possibilità, ma pur sempre con l’intenzione di piacere soprattutto agli
angeli. Tu chiamalo retrogrado, se vuoi. Ma a me è piaciuto ricordarlo.
Manca
molto per rivedere sulle porte delle chiese i cartelli con su scritte almeno
le norme estetiche basilari sul comportamento corretto da tenere in chiesa?
Grazie.
Foto di copertina: un cartello che si vede ancora raramente in una Chiesa
sempre più nel mondo ma compromessa col mondo. La questione tocca un
argomento molto delicato e per nulla scontato: il tema dell’abbigliamento
con il quale ci si presenta in chiesa è indice anch’esso di quello che è
lo spirito dei tempi. Una volta alla domenica ci si metteva il vestito
della festa perché era il dress code necessario per presentarsi fronte a
quel Signore al quale si dedicava il giorno santo. Ogni luogo ha il suo
dress code. Non si mette lo smoking per andare in spiaggia e non si va al
teatro in pantaloncini e ciabatte. Esiste anche un modo di parlare
silente. È il linguaggio del corpo, che è un tipo di comunicazione in cui
i comportamenti fisici, e non le parole, vengono utilizzati per esprimere
o trasmettere informazioni, più delle volte in modo inconsapevole. Tali
comportamenti comprendono le espressioni facciali, la postura del corpo, i
gesti, il movimento degli occhi, il tatto e l’uso dello spazio. Il
linguaggio del corpo esiste sia negli animali che negli esseri umani. I
primi l’hanno conservato, i secondi ne stanno perdendo la consapevolezza e
se ne occupa la Psicologia… È così difficile per i sacerdoti di parlare,
con garbo e delicatezza, di regole di modestia nel vestire in chiesa? Ad
esempio, appendendo alla porta della chiesa il classico cartellino con le
indicazioni del dress code richiesto?
Articolo pubblicato da
korazym.org
Nell’estate del 2022, un caldo infernale, quando ancora le mascherine
erano più o meno obbligatorie, mi trovavo di Domenica in una chiesa,
quando alla fine della solenne Celebrazione Eucaristica in Vetus Ordo, la
gran parte dei fedeli fanno per uscire. Quello è il momento in cui
arrivano i turisti.
Avevo terminato le mie preghiere di ringraziamento e stavo per
uscire, quando genuflessa ai piedi della porta d’ingresso principale, per
effettuare l’ultimo saluto a Gesù con il Segno della Croce, quasi calpestata
da quattro bei baldi giovani sulla ventina, due ragazze e due ragazzi
entrati allegramente, noto due gambe nude che non finivano più, man mano che
rialzavo lo sguardo e le ginocchia da terra.
Posta in piedi,
mentre i ragazzi schiamazzavano, la giovinetta dalle gambe lunghe e poca
stoffa, fa per dirmi qualcosa. Prima che proferisca parola e catturatale
l’attenzione visiva, dopo averle dato un’occhiata palese dalla testa ai
piedi, su e giù per un paio di volte, perché capisse dal gesto quello che
per carità avrei omesso nelle parole, verbalmente incalzo, precedendola:
«Scusi signorina, lei sa che questa è una chiesa, vero? Bene. Vorrei
ricordarle che in chiesa si viene per adorare il Corpo di Cristo –
indicandole col dito il Tabernacolo. Il Corpo di Cristo, signorina, si viene
ad adorare qui. Non il suo! Fuori c’è un cesto contenente dei veli. Esca
cortesemente, si copra e ritorni qui, come si deve. Grazie”.
Filtrata
dal tessuto di una mascherina che non esiterei a definire ascellare vista
l’altezza con cui si dipanava su quel viso di cui mai conoscerò i tratti,
infuriata giunge la risposta: «Dice a me? E con quale coraggio?! Lei che non
ha nemmeno la mascherina!!! Si vergogni!», e tutta arrabbiata se ne va – con
la balda ghenga – da dove era venuta.
Rimasta sola, inebriata dal
profumo di incenso che copioso volteggiava ancora nel volume dell’intero
edificio, fino alla cupola, mi inginocchio di nuovo. Porto gli occhi al
Tabernacolo. Chiedo perdono per me e per tutti. Rifaccio il Segno della
Croce. Mi alzo, tolgo il velo muliebre e vado a pranzo, mentre camminando mi
domando cosa abbiano di così attraente questi solfurei tempi moderni da
preferire l’odore di zolfo a quello dell’incenso. Tempi che sballano le
categorie mentali per intero, senza porre argine al delirio, che nel
rovesciamento categorico consueto chiamano diritto ogni delitto e
retrograda, chiunque custodisca l’equilibrio dell’equità.
Siamo
stati giovani tutti, ma a noi è stato dato di esserlo quando si aveva ancora
un’idea dell’opportuno e dell’inopportuno. Tassello sottratto dalle
coscienze col crollo della morale, contro il quale San Pio da Pietrelcina
interveniva spesso con la consueta terapia d’urto. In casi simili infatti
con parole tipo: «Vatti a vestire, scostumata! Oppure: ti taglierei le
braccia. Le carni nude bruceranno», allontanava dal confessionale le donne
che non portavano la gonna lunga almeno fino ai polpacci, mandandole via
senza assoluzione. Diceva che ciascuno deve vestire secondo le proprie
possibilità, ma pur sempre con l’intenzione di piacere soprattutto agli
angeli. Tu chiamalo retrogrado, se vuoi. Ma a me è piaciuto ricordarlo.
Manca
molto per rivedere sulle porte delle chiese i cartelli con su scritte almeno
le norme estetiche basilari sul comportamento corretto da tenere in chiesa?
Grazie.
Foto di copertina: un cartello che si vede ancora raramente in una Chiesa
sempre più nel mondo ma compromessa col mondo. La questione tocca un
argomento molto delicato e per nulla scontato: il tema dell’abbigliamento
con il quale ci si presenta in chiesa è indice anch’esso di quello che è
lo spirito dei tempi. Una volta alla domenica ci si metteva il vestito
della festa perché era il dress code necessario per presentarsi fronte a
quel Signore al quale si dedicava il giorno santo. Ogni luogo ha il suo
dress code. Non si mette lo smoking per andare in spiaggia e non si va al
teatro in pantaloncini e ciabatte. Esiste anche un modo di parlare
silente. È il linguaggio del corpo, che è un tipo di comunicazione in cui
i comportamenti fisici, e non le parole, vengono utilizzati per esprimere
o trasmettere informazioni, più delle volte in modo inconsapevole. Tali
comportamenti comprendono le espressioni facciali, la postura del corpo, i
gesti, il movimento degli occhi, il tatto e l’uso dello spazio. Il
linguaggio del corpo esiste sia negli animali che negli esseri umani. I
primi l’hanno conservato, i secondi ne stanno perdendo la consapevolezza e
se ne occupa la Psicologia… È così difficile per i sacerdoti di parlare,
con garbo e delicatezza, di regole di modestia nel vestire in chiesa? Ad
esempio, appendendo alla porta della chiesa il classico cartellino con le
indicazioni del dress code richiesto?
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