Posta in piedi, mentre i ragazzi schiamazzavano, la giovinetta dalle gambe lunghe e poca stoffa, fa per dirmi qualcosa. Prima che proferisca parola e catturatale l’attenzione visiva, dopo averle dato un’occhiata palese dalla testa ai piedi, su e giù per un paio di volte, perché capisse dal gesto quello che per carità avrei omesso nelle parole, verbalmente incalzo, precedendola: «Scusi signorina, lei sa che questa è una chiesa, vero? Bene. Vorrei ricordarle che in chiesa si viene per adorare il Corpo di Cristo – indicandole col dito il Tabernacolo. Il Corpo di Cristo, signorina, si viene ad adorare qui. Non il suo! Fuori c’è un cesto contenente dei veli. Esca cortesemente, si copra e ritorni qui, come si deve. Grazie”.
Filtrata dal tessuto di una mascherina che non esiterei a definire ascellare vista l’altezza con cui si dipanava su quel viso di cui mai conoscerò i tratti, infuriata giunge la risposta: «Dice a me? E con quale coraggio?! Lei che non ha nemmeno la mascherina!!! Si vergogni!», e tutta arrabbiata se ne va – con la balda ghenga – da dove era venuta.
Rimasta sola, inebriata dal profumo di incenso che copioso volteggiava ancora nel volume dell’intero edificio, fino alla cupola, mi inginocchio di nuovo. Porto gli occhi al Tabernacolo. Chiedo perdono per me e per tutti. Rifaccio il Segno della Croce. Mi alzo, tolgo il velo muliebre e vado a pranzo, mentre camminando mi domando cosa abbiano di così attraente questi solfurei tempi moderni da preferire l’odore di zolfo a quello dell’incenso. Tempi che sballano le categorie mentali per intero, senza porre argine al delirio, che nel rovesciamento categorico consueto chiamano diritto ogni delitto e retrograda, chiunque custodisca l’equilibrio dell’equità.
Siamo stati giovani tutti, ma a noi è stato dato di esserlo quando si aveva ancora un’idea dell’opportuno e dell’inopportuno. Tassello sottratto dalle coscienze col crollo della morale, contro il quale San Pio da Pietrelcina interveniva spesso con la consueta terapia d’urto. In casi simili infatti con parole tipo: «Vatti a vestire, scostumata! Oppure: ti taglierei le braccia. Le carni nude bruceranno», allontanava dal confessionale le donne che non portavano la gonna lunga almeno fino ai polpacci, mandandole via senza assoluzione. Diceva che ciascuno deve vestire secondo le proprie possibilità, ma pur sempre con l’intenzione di piacere soprattutto agli angeli. Tu chiamalo retrogrado, se vuoi. Ma a me è piaciuto ricordarlo.
Manca molto per rivedere sulle porte delle chiese i cartelli con su scritte almeno le norme estetiche basilari sul comportamento corretto da tenere in chiesa? Grazie.
Foto di copertina: un cartello che si vede ancora raramente in una Chiesa
sempre più nel mondo ma compromessa col mondo. La questione tocca un
argomento molto delicato e per nulla scontato: il tema dell’abbigliamento
con il quale ci si presenta in chiesa è indice anch’esso di quello che è
lo spirito dei tempi. Una volta alla domenica ci si metteva il vestito
della festa perché era il dress code necessario per presentarsi fronte a
quel Signore al quale si dedicava il giorno santo. Ogni luogo ha il suo
dress code. Non si mette lo smoking per andare in spiaggia e non si va al
teatro in pantaloncini e ciabatte. Esiste anche un modo di parlare
silente. È il linguaggio del corpo, che è un tipo di comunicazione in cui
i comportamenti fisici, e non le parole, vengono utilizzati per esprimere
o trasmettere informazioni, più delle volte in modo inconsapevole. Tali
comportamenti comprendono le espressioni facciali, la postura del corpo, i
gesti, il movimento degli occhi, il tatto e l’uso dello spazio. Il
linguaggio del corpo esiste sia negli animali che negli esseri umani. I
primi l’hanno conservato, i secondi ne stanno perdendo la consapevolezza e
se ne occupa la Psicologia… È così difficile per i sacerdoti di parlare,
con garbo e delicatezza, di regole di modestia nel vestire in chiesa? Ad
esempio, appendendo alla porta della chiesa il classico cartellino con le
indicazioni del dress code richiesto?
Articolo pubblicato da
korazym.org
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